sabato 4 dicembre 2010

La legge (non) è uguale per tutti "seconda parte"

Parte II
Bruno Contrada
Ogni tanto, non sempre ci mancherebbe altro, ma qualche volta, la giustizia italiana arriva a una conclusione certa riguardo un processo, emettendo una sentenza chiara, ineccepibile e definitivamente completa dal punto di vista giuridico. Uno di questi casi, riguarda un signore, non uno qualsiasi, ma che ha fatto parte della polizia italiana prima come commissario, poi col tempo ne è divenuto un dirigente di grosso peso. Verrebbe da dire un servitore dello Stato, con un piccolo particolare però, quello di essere stato indagato e poi processato per concorso esterno in associazione mafiosa, e per questo condannato a dieci anni di reclusione da scontare in un carcere militare. Si tratta di Bruno Contrada.
Quest'uomo negli anni settanta era commissario presso la città di Palermo, anni in cui venivano uccisi poliziotti e carabinieri come fossero briciole di pane, non appena le loro indagini cominciavano a mettere le mani sui soldi della mafia, cercando appunto di fare chiarezza in merito ad alcune indagini. Basti ricordare per esempio il commissario Boris Giuliano, o il capitano dei carabinieri Emanuele Basile caduti sotto i colpi di pistola. Mentre lui, Contrada rimaneva immune (per sua fortuna) da questi atti vendicativi da parte della criminalità organizzava che operava in Sicilia. Negli anni ottanta fino al 1992 venne promosso a capo del Sisde, il servizio segreto militare, di cui fu per anni uno dei massimi esponenti principali, fino a che nel dicembre dello stesso anno venne tratto in arresto secondo le dichiarazoni di diversi collaboratori di giustizia, tra cui il celebre Tommaso Buscetta, che lo indicavano come uomo delle istituzioni che da sempre intratratteneva buoni rapporti con la mafia. In seguito a queste rivelazioni, l'ex numero due del Sisde, venne messo sotto processo, e dopo tre gradi di giudizio, nel 2007 venne condannato in via definitiva dalla suprema corte di Cassazione a dieci anni di carcere per il reato di associazione mafiosa (416 bis).
Una delle "cose" che faceva Contrada durante gli anni di servizio presso la polizia di Stato, era quella di favorire e allungare la latitanza di alcuni uomini d'onore appartenenti a Cosa Nostra, tra cui Salvatore Riina, detto Totò. Quando il commissario, tramite alcune voci di palazzo, veniva a conoscenza dei bliz che ci sarebbero stati di lì a poco per stanare i boss e porre fine alla loro indisturbata latitanza, lui li chiamava apposta, avvertendoli della cosa, cosicché quando le forze dell'ordine arrivavano sul posto non trovavano mai nessuno. Proprio nel 1981, è certificato, il dottor Contrada avvertì lo stesso Riina che un reparto delle forze dell'ordine stesse per giungere sul luogo dove si nascondeva, e questi prontamente si diede nuovamente alla macchia per altri dodici anni quando finalmente venne tratto in arresto nel gennaio del 1993. Possiamo quindi dire che per colpa di Contrada, Riina non è potuto finire nella mani della giustizia italiana anzi tempo, favorendo così altri delitti che egli commise contro servitori dello Stato veri e propri.
Dopo questa sentenza definitiva, l'avvocato del pregiudicato e alcuni personaggi quali il giornalista Giuliano Ferrara, auspicarono che venisse concessa a costui la grazia per mano del Capo dello Stato, cosa che ha fatto molto aizzare i familiari delle vittime di mafia. Da aggiungere che Contrada stesso era un personaggio che il giudice Falcone, a detta dei suoi colleghi, non auspicava alcuna fiducia, e nonostante il commissario stesso abbia ribadito che fra lui e il giudice Borsellino ci fu una collaborazione lavorativa in passato e una stima reciproca, venne prontamente sbugiardato dai familiari del giudice stesso che sottolinearono che il poliziotto e il magistrato non avessero mai lavorato assieme. Inoltre, per quanto riguarda la strage di via D'Amelio, in cui persero la vita il giudice Borsellino e gli agenti di scorta, a Contrada squillò il cellulare in cui l'interlocutore gli comunicò le modalità e le vittime di quell'attentato dopo nemmeno un minuto lo scoppio della bomba. Una velocità supersonica, sapere dopo nemmeno un minuto una notizia simile quando il fratello del giudice medesimo, Salvatore, sostiene di aver appurato della morte del fratello qualche ora dopo strage avvenuta.
Nonostante questo però, Contrada continua a proclamarsi innocente e anzi, sostiene che i cittadini e le istituzioni dovrebbero solo dirgli grazie per i servizi resi alla Nazione. Ma quali servizi? Quelli di aver protetto la latitanza dei bosso favorendo così la mafia?
Fatto sta che questo signore ora come ora continua a proclamarsi innocente, non sta bene in salute, e si rifiuta di nutrirsi, per cui gli sono stati concessi gli arresti domiciliari. Su questo posso anche essere d'accordo, la salute è una cosa importante e ogni persona deve essere curata in modo adeguato.
Ma sulla grazia, personalmente sono completamente contrario. Come si fa a concederla a un uomo che per anni in polizia anziché combatterla, la mafia la proteggeva? Come si fa a difendere la sua figura che è una macchia sull'intera polizia stessa e che è corresponsabile di alcuni omicidi perché si è rifiutato di arrestare i boss che nel tempo li avrebbero commessi?
E' mai possibile che quando per una volta tanto abbiamo delle sentenze definitive che sostengono,  in base a prove certe e concrete, che un sigore attraverso il ruolo che ricopriva nelle forze dell'ordine abbia favorito la mafia, continuando a lasciare a piede libero i bosso per lunghi anni venga addirittura difeso da alcuni che lo dipingono una "vittima", mentre i giudici e gli inquirenti invece carnefici?
E poi ci chiedevamo come mai le latitanze di alcuni di essi duravano più di vent'anni.
Fatto sta che sentenze di questo genere andrebbero rispettate proprio perché certe, si può quindi dire che Bruno Cotrada è un pregiudicato condannato in via definitiva per associazione mafiosa. Sarebbe giusto rispettare le sentenze, soprattutto quando sono chiare pulite e trasparenti, e che si smetta di fare, tramite alcuni personaggi della televisione, campagne denigratorie nei confronti dei giudici che hanno accertato la verità, e che per questo gli va invece riconosciuto il merito che loro, proprio loro, sono i servitori dello Stato in tutto e per tutto.


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